Rinuncia alla proprietà di immobili inutilizzabili

Sul tema si erano formati, nella giurisprudenza di merito e in dottrina, due orientamenti.

Secondo un primo orientamento, la rinuncia abdicativa alla proprietà è ammissibile: essa darebbe luogo ad un negozio giuridico unilaterale, non recettizio né traslativo (a differenza delle ipotesi di abbandono liberatorio), con effetti soltanto indiretti sui terzi.

Secondo un opposto orientamento, a differenza delle cose mobili (che, ove abbandonate, diventano “res nullius”), le cose immobili non possono non essere di proprietà di alcuno.

I Tribunali dell’Aquila e di Venezia, alla luce dei dubbi relativi all’ammissibilità della rinuncia abdicativa dei beni immobili, hanno disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione per la soluzione della questione di diritto “attinente all’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su beni immobili, nonché all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto”.

La Prima Presidente, dichiarando ammissibile la questione, ha assegnato la stessa alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 23093 dell’11.08.2025, si allineano con l’orientamento più tradizionale. In particolare, per il diritto romano classico la rinuncia alla proprietà degli immobili era compresa nella più ampia facoltà di derelictio, discutendosi soltanto se oltre la volontà del proprietario e l’effettivo abbandono della cosa occorresse altresì l’occupazione del bene da parte di un terzo. Il diritto moderno ha preso ad interessarsene essenzialmente per condizionarne la validità ad una dichiarazione in forma scritta da rendere pubblica mediante la trascrizione o, nelle legislazioni di tipo germanico, mediante iscrizione nei libri fondiari.

A sostegno della tesi dell’ammissibilità della rinuncia alla proprietà di beni immobili si pongono una serie di argomenti.

Innanzitutto, da un punto di vista normativo – sistematico, non emerge un generale potere-dovere del proprietario di esercitare i suoi poteri in maniera “funzionale” al sistema socio-economico: il godimento del bene resta forma di esercizio del diritto di proprietà appartenente al titolare per il soddisfacimento di un interesse patrimoniale da lui disponibile. La Suprema Corte, dunque, trae un primo principio e, cioè, “quando l’ordinamento pone divieti ai proprietari di disporre di determinati beni mediante abbandono incontrollato degli stessi, la illegittimità della condotta dismissiva viene affermata … per la violazione di norme imperative di ordine pubblico, che, in via generale ed astratta, esprimono scelte tassative che il legislatore ha ritenuto essenziali e irrinunciabili agli interessi della collettività”. In sostanza, in presenza di un divieto esplicito di disposizione, lo stesso è valutato perché sussistono divieti specifici, espressi e tassativi introdotti dal legislatore. La regola, pertanto, è la facoltà di disposizione mentre il divieto, individuato espressamente, è l’eccezione.

Anche l’argomento sostenuto per negare la rinuncia (cioè quello secondo cui l’ordinamento non la prevede né la ammette apertamente) viene sconfessato dalla Corte che afferma che appare metodologicamente errato “ricercare nella legge non un esplicito divieto di rinunciare alla proprietà delle cose o di alcune cose quanto, al contrario, una positiva affermazione che la proprietà possa essere rinunciata. Dal vigente regime ordinamentale di appartenenza dei beni .. pur restando escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto e illimitato, spetterebbe comunque al legislatore adottare una restrizione o imporre addirittura una esclusione della facoltà di rinunciarvi”. Del resto, da un punto di vista funzionale, se la proprietà fosse irrinunciabile, il privato dovrebbe farsi carico di una questione pubblica, dovendosi sobbarcare in eterno tutti i costi relativi mentre l’art 2 Cost. giustifica la prescrizione al proprietario di obblighi e di comportamenti in funzione di salvaguardia di interessi fondamentali aventi rilevanza collettiva (come la tutela ella salute e dell’ambiente), ma  non anche l’imposizione della proprietà privata.

La proprietà immobiliare, quindi, è sempre rinunciabile; un limite dovrebbe esser in ogni caso conclamato da una legge.

Una volta ammessa la rinuncia abdicativa alla proprietà come modalità di attuazione dei poteri dominicali di utilizzazione e di scelta della destinazione del bene, le categorie degli atti emulativi e dell’abuso del diritto non possono ergersi a limiti della stessa per la tutela di interessi altrui o per la salvaguardia di scopi generali di varia natura. In effetti, l’abbandono dell’immobile avviene solitamente quando lo stato dell’immobile è ormai compromesso. Va, però, considerato che “La responsabilità per i danni che siano causalmente collegati alla proprietà di un immobile e il cui fatto illecito generatore si rinvenga nella negligente costruzione / manutenzione o custodia dello stesso, persiste anche in caso di rinuncia abdicativa (e non liberatoria) al bene. In forza dell’acquisto al patrimonio dello Stato, stabilito dall’art 827 c.c., quest’ultimo diviene vincolato propter rem per i soli obblighi gestori sorti dopo la rinuncia, mentre le responsabilità risarcitori sorte anteriormente restano a carico del rinunciante”. Questa affermazione elimina ab origine l’abusività della rinuncia per quanto riguarda il passato dal momento che non si assiste a uno spostamento dell’obbligazione ripristinatoria dal singolo alla collettività; per quanto riguarda il futuro, per gli immobili inagibili o inabitabili (quelli per cui si farà maggiore ricorso alla rinuncia), sono previsti meccanismi di riduzione o esenzione dalle imposte (secondo un precedente della Corte del 2015, in riferimento a tali immobili l’ICI deve essere ridotta al 50%, in ossequio a quanto previsto dall’art 8, comma 1 del D.Lgs 504/92).

Sempre da un punto di vista normativo, poi, la Suprema Corte afferma che il trasferimento dell’immobile rinunciato all’erario è l’effetto dell’attuale assetto normativo. In particolare, “L’acquisizione al patrimonio pubblico dei beni immobili che non sono di proprietà di alcuno si spiega, quindi, come espressione della sovranità dello Stato, evolutivamente intesa .. come sintesi dei valori essenziali della comunità che presentano precipuo rilievo costituzionale, quali … quelli paesaggistici, ambientali, archeologici e di prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici e, prima cora, in materia di sicurezza, quelli collegati alla tutela dell’interesse generale alla incolumità delle persone”.

In sostanza, la rinuncia, di per sé, comporta solo la perdita del diritto in capo al proprietario rinunciante. La sorte dell’immobile, poi, dipende dal legislatore vivente (v. art 827 c.c.). Rimane, ovviamente, ferma la libertà per il legislatore di rimodulare la disciplina dei beni immobili vacanti.

Conclusioni

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha sostanzialmente affermato l’ammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare essenzialmente perché, tra le facoltà del proprietario, vi è anche quella di liberarsi della proprietà. Se il privato fosse obbligato a rimanere proprietario dell’immobile, egli dovrebbe farsi carico di sostenere “all’infinito” i suoi costi di mantenimento (mentre, invece, non può ricavarsi dall’art 42, comma 2 Cost un dovere di essere e restare proprietario per “motivi di interesse generale”).

Secondo autorevole dottrina, la vera esplicazione del dovere di solidarietà consiste nell’attività dello Stato che si fa carico della gestione di questa proprietà inutile, con una “diluizione” su tutta la collettività dei relativi costi.

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